Per le aziende italiane della moda crescono i fornitori locali (56%)
La rilocalizzazione in Italia della propria base fornitori si sta dimostrando, perlomeno per il settore della moda, un fenomeno reale e non solo ‘mediatico’. A dirlo è ora l’ultimo report dell’area Studi Mediobanca sulle ‘Maggiori Aziende Moda Italia’ che prende in analisi 152 società del settore con sede in Italia dal fatturato individuale superiore ai […]
La rilocalizzazione in Italia della propria base fornitori si sta dimostrando, perlomeno per il settore della moda, un fenomeno reale e non solo ‘mediatico’.
A dirlo è ora l’ultimo report dell’area Studi Mediobanca sulle ‘Maggiori Aziende Moda Italia’ che prende in analisi 152 società del settore con sede in Italia dal fatturato individuale superiore ai 100 milioni di euro.
Relativamente alla supply chain, l’analisi evidenzia infatti come le aziende nel periodo 2018-2021 abbiano fatto in media ricorso per il 56% a fornitori localizzati in Italia, per il 30% in Asia, per l’11% nel resto dell’Europa, per il 2% in Africa e per il restante 1% nelle Americhe. Numeri superiori a quelli del solo 2018, quando la quota italiana era pari al 54%, e che si devono in particolare all’abbandono di fornitori dell’Europa dell’Est e dell’Asia.
Come prevedibile, la quota è sensibilmente maggiore per le realtà dell’alta gamma (80%), che peraltro disdegnano del tutto sotto questo profilo i partner di Africa o Americhe. Di contro, per le aziende mass-market la ‘fetta’ italiana di fornitori è pari al 19%, con la parte del leone (58%) che invece è dell’Asia.
Più in generale, secondo Mediobanca, ad oggi nella Penisola si stanno dispiegando due strategie prevalenti. La prima è una spinta alla realizzazione di nuove fabbriche o l’ampliamento di quelle già esistenti, con investimenti e tempistiche elevati; la seconda è una tendenza alla integrazione verticale tramite joint venture o acquisizioni. Dall’osservazione del mercato dei terzisti emerge inoltre come sia in atto tra questi un processo di consolidamento guidato da “alcuni poli di aggregazione nazionali”. Il fenomeno del near o reshoring è peraltro destinato a non fermarsi. Secondo gli analisti, alcuni indicatori evidenziano infatti che questo interesserà “il 26% delle produzioni globali”. Per il settore della moda, tuttavia, va tenuto presente che questa tendenza non potrà riguardare naturalmente le materie prime energetiche, i materiali chimici, e nemmeno le cosiddette materie prime nobili, quali cotone, seta o cashmere, che perlomeno finora sono interamente importate.
Oltre che sulle tendenze relative agli approvvigionamenti, l’analisi di Mediobanca offre anche diverse indicazioni sull’andamento del settore e sulla sua propensione all’export.
Per il 2022, innanzitutto, i dati pre-consuntivi delle aziende prese in considerazione segnalano una crescita del giro d’affari nominale a livello aggregato del 20% (a 82 miliardi di euro, +21% sul 2019), grazie al traino delle vendite all’estero (+24% sul 2021). Per l’anno in corso la stima è di un incremento dei ricavi dell’8% a circa 90 miliardi, con la riapertura della Cina che può rappresentare un fattore importante di crescita.
Allo stato attuale, la proiezione internazionale è una delle caratteristiche più del settore. Il 73,7% del fatturato complessivo proviene infatti dall’estero, con in testa la gioielleria (80,3%), l’occhialeria (78,0%) e le pelli, cuoio e calzature (76,9%). I produttori di alta gamma (comparti abbigliamento, pelletteria e tessile) si collocano su livelli di export più elevati rispetto a quelli di fascia più economica (73,2% vs 58,2%), dimostrando maggiore capacità di presidiare i mercati esteri.
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