Reshoring e non solo: quali strategie di riposizionamento stanno scegliendo le aziende italiane
Diversificazione, replicazione, reshoring, o near-shoring: in queste quattro categorie, secondo l’Unctad, si possono raggruppare le strategie di riadattamento delle catene del valore globali perseguite dalle aziende a seguito del Covid. Nel dettaglio, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di commercio e sviluppo, con diversificazione si intende lo sviluppo di collaborazioni con partner dei […]
Diversificazione, replicazione, reshoring, o near-shoring: in queste quattro categorie, secondo l’Unctad, si possono raggruppare le strategie di riadattamento delle catene del valore globali perseguite dalle aziende a seguito del Covid.
Nel dettaglio, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di commercio e sviluppo, con diversificazione si intende lo sviluppo di collaborazioni con partner dei paesi in cui si svolgono produzione e vendita, con l’obiettivo di aumentare la famosa ‘resilienza’ e offrendo maggiore customizzazione di prodotti e servizi, riducendo però la possibilità di raggiungere economie di scala. La seconda possibilità è quella della replicazione: in sintesi le aziende andrebbero a replicare una parte molto consistente delle attività della catena del valore nei diversi paesi di destinazione, sacrificando del tutto la possibilità di avere economie di scala. Ogni filiera, in pratica, farebbe storia a sé e per questo motivo questa strada è ritenuta da Unctad la direzione di evoluzione meno probabile. Segue la possibilità del reshoring, ovvero il trasferimento delle attività produttive nel paese di origine. Per l’agenzia dell’Onu lo scenario “oggi più percorribile (sebbene estremamente complesso) per le imprese dei paesi occidentali”, dato che il progresso tecnologico permetterebbe loro di raggiungere livelli di produttività sempre più elevati e la possibilità di sfruttare i vantaggi in chiave di marketing (ad esempio il ricorso al marchio Made In Italy). Tuttavia secondo Unctad nel complesso si tratta di una strada più percorribile con le forniture che con gli stabilimenti produttivi.
Quarta e ultima possibilità è quella del near-shoring, ovvero la regionalizzazione delle catene del valore, in cui le attività non sono rimpatriate ma trasferite nella macro-regione del paese di origine. Uno scenario ritenuto interessante per le aziende europee (perché offrirebbe una maggior diversificazione dei rischi, anche geopolitici) anche perché è quello promosso dalla Ue nel suo recentissimo documento “Post Covid-19 value chains: options for reshoring production back to Europe in a globalised economy” in cui si affronta il tema di come favorire il rientro delle catene del valore di alcuni settori strategici e high-tech, come prodotti medicali, farmaceutica, semiconduttori e energia solare.
In questo quadro generale, come si stanno muovendo (se si stanno muovendo) le imprese italiane?
Secondo il report sul “Ruolo dell’Italia nelle catene globali del valore” realizzato dall’Osservatorio Export Digitale del Politecnico di Milano con Alsea (Associazione Lombardia Spedizionieri e Autotrasportatori) lo scenario appare piuttosto variegato, ma ci sono importanti evidenze di un crescente ricorso al reshoring, specie in settori strategici.
Secondo ad esempio una survey condotta dalla Banca d’Italia su un campione di circa 3.000 imprese, il 60% di quelle con impianti all’estero non ha ridotto la propria presenza internazionale negli ultimi tre anni, né intende farlo in prospettiva. Parimenti, il 78% delle imprese con fornitori esteri non intende diminuirne il numero. Tuttavia, nonostante la forte propensione delle imprese italiane a mantenere un elevato grado di internazionalizzazione, un numero non trascurabile di quelle interpellato (il 6%) sta prendendo in considerazione la possibilità di rientrare completamente dall’estero, e il 2% ha già deciso di farlo.
Diverse le risultanze di una ricerca condotta da The European House Ambrosetti nell’ottobre 2020 su 70 imprese italiane con rapporti di fornitura o clientela con paesi esteri o che hanno una sede all’estero.
Quasi il 60% ha detto di non ritenere strategica una ricollocazione delle proprie attività (in Italia o all’estero). Tra le ragioni addotte, hanno citato il non voler modificare le proprie scelte di internazionalizzazione data l’appartenenza a settori con catene del valore globali molto complesse (chimica, farmaceutica, elettronica) e di difficile ricollocazione. Altre si sono dette scoraggiate dall’ipotesi di rientrare nel contesto italiano, meno favorevole di quello dei paesi esteri La situazione sanitaria globale, ha evidenziato la ricerca, ha però messo in luce per il 40% delle aziende intervistate le difficoltà legate all’avere attività localizzate all’estero, tra cui: interruzioni o ritardi nelle forniture, incrementi dei prezzi delle forniture, difficoltà nel reperimento di componenti e materiali necessari alla produzione, fino alla cessazione delle vendite all’estero.
Alla luce di questi problemi, il 20% delle imprese interpellate ha detto di considerare di riorganizzare le attività della propria catena del valore più localmente per poter esercitare un maggior controllo sulle attività e sui processi svolti all’estero, per ridurre l’esposizione ai rischi internazionali e la dipendenza dall’estero, e per rafforzare la componente di Made in Italy.
Per capire meglio se queste valutazioni possano però tradursi effettivamente in decisioni di rilocalizzazione, il report ha analizzato i casi di rientro delle imprese italiane dall’estero prima dello scoppio della pandemia, sulla base di un’indagine da diverse università italiane tramite la banca dati “UniCLUB MoRe reshoring”.
Da queste analisi risulta che fino a maggio 2020 sono stati circa 171 casi di reshoring verso l’Italia, che risultava essere dunque il secondo paese europeo (dopo la Francia) per numero di rientri.
La maggior parte dei casi riguardava rientri da altri paesi europei (il 25% dall’Europa occidentale e il 21% Europa dell’Est e Russia) ma considerevoli sono stati anche quelli dalla Cina (32%) e da altri paesi asiatici (11%). I settori maggiormente coinvolti nel reshoring sono stati finora abbigliamento, confezione di articoli in pelle, macchinari, apparecchiature elettriche, e computer e prodotti di elettronica e ottica, mentre le regioni con il più alto numero di casi sono Veneto (54), Emilia Romagna (28) e Lombardia (22).
Interessante notare che la maggior parte dei rientri nel Veneto derivano dall’Asia, quelli in Emilia Romagna dall’Europa, mentre la situazione della Lombardia risultava bilanciata tra le due aree.
Relativamente alla ragione principale che ha guidato le scelte di reshoring, la più citata è l’effetto made-in (78 casi), cioè la possibilità di poter far leva sul “Made-in-Italy”. Notevole anche l’importanza attribuita alla necessità di migliorare la qualità del servizio offerto al cliente (35 casi), soprattutto per le imprese che fanno rientro in Veneto e in Emilia Romagna. Per le imprese lombarde, invece, i driver più rilevanti sono stati la necessità di avvicinarsi alle attività di ricerca e sviluppo per favorire l’innovazione e alcune riorganizzazioni aziendali interne. La qualità della produzione, è stata citata soprattutto dalle imprese venete.
Il tema del reshoring sta oggi interessando anche i policy-makers italiani. In particolare il CAIE (Comitato per l’Attrazione degli Investimenti Esteri) presieduto dal Ministero dello Sviluppo Economico, starebbe elaborando delle linee guida per lo sviluppo di alcune politiche, collaborando anche con Confindustria che sul tema ha anche lanciato una nuova survey a livello nazionale.
I dati preliminari (su un campione di 327 imprese) mostrano che, se da un lato le intenzioni di reshoring di impianti produttivi sia piuttosto limitato (circa il 4% delle imprese che hanno un impianto all’estero), quello delle forniture è già stato implementato da circa il 20% delle imprese che si servivano di fornitori esteri, mentre un altro 30% sembra pronto a considerare l’ipotesi di servirsi di fornitori italiani anziché esteri.
Anche questo studio evidenzia però come la rilocalizzazione non debba essere concepita come una forma di protezionismo o nazionalismo ma come un’opportunità per rendere più attrattivo il territorio italiano.
In particolare per le imprese di piccole e medie dimensioni, può rappresentare la possibilità di presentarsi ai consumatori con un prodotto di maggior qualità, più sostenibile e realizzato in Italia, e di accedere dunque a nuovi mercati internazionali vendendo un prodotto a maggior valore aggiunto, “generando, quindi, una nuova domanda di servizi logistici e trasporti che riguarderebbe non più l’import di prodotti intermedi o finiti, ma l’export di prodotti finali”. Secondo l’analisi, oltre al rientro di alcune imprese italiane o delle loro forniture, l’Italia potrebbe attrarre infine iniziative di near-reshoring da parte di altre imprese europee, sempre nel quadro di quella strategia delineata dal già citato report curato dalla Ue con l’obiettivo di costituire una catena del valore europea.
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